Nursing di territorio nel post trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche: forse l’Australia non è poi così lontana.

Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione di questi ultimi decenni, spinte anche dalla recente pandemia da SARS-CoV-2, sono riuscite di fatto ad accorciare le distanze tra mondi apparentemente distanti e differenti tra loro; web, social, piazze virtuali hanno realizzato l’ultima autentica rivoluzione compiuta a cavallo tra due secoli. Grazie proprio a queste nuove tecnologie ci siamo imbattuti casualmente nella narrazione di una esperienza condotta nella lontanissima Australia dove i nostri colleghi sono andati ad implementare un diverso approccio multidisciplinare di presa in carico del paziente nel follow-up post Trapianto di Cellule Staminali Emopoietiche (TCSE) valutando contestualmente alcuni outcomes di salute. La domanda che ci siamo posti: in Italia, nell’attuale contesto normativo e regolamentatorio, questo tipo di approccio può essere possibile e sostenibile? Sul tema, il lavoro di Nakagaki et al. sembra sostenere quella riflessione e discussione aperta da diversi anni all’interno della nostra professione e solo in minima parte ipotizzata oggi dalle nostre istituzioni con la creazione “sulla carta” dell’Infermiere di Famiglia e Comunità; figura che, come descritto Decreto 23 maggio 2022, n. 77 (PNRR!), “assicura l’assistenza infermieristica in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità in cui opera”.

Cerchiamo di capire insieme quanto le diverse esperienze maturate in mondi così lontani siano applicabili e vicine alla nostra realtà.

 

 

Nakagaki M, Gavin NC, Hayes T, Fichera R, Stewart C, Naumann L, Brennan J, Perry N, Foley E, Crofton E, Brown C, Leutenegger J, Kennedy GA. Implementation and evaluation of a nurse-allied health clinic for patients after haematopoietic stem cell transplantation. Support Care Cancer. 2022 Jan;30(1):647-657. doi: 10.1007/s00520-021-06461-w. Epub 2021 Aug 7. PMID: 34363493

È ampiamente noto a tutti noi come il TSCE, autologo ed allogenico, sia caratterizzato da diverse e specifiche complicanze che possono incidere in maniera importante sulla morbilità e la mortalità: GvHD, infezioni, fatigue, malnutrizione, nausea, vomito, mucosite, ecc.; a queste si associano disturbi psico-emotivi come depressione, ansia e stress. I pazienti, nell’immediato follow up necessitano di un attento monitoraggio atto a ridurre gli esiti di tali complicanze attraverso interventi assistenziali protettivi e preventivi. Inoltre, tali pazienti necessitano di ricevere interventi educazionali per garantire la migliore aderenza, laddove previsto, al trattamento farmacologico immunosoppressivo e di profilassi antimicrobica. Per rispondere al meglio ai bisogni di cura dei pazienti in questa fase del trattamento, è stato proposto e creato per un periodo di 6 mesi un ambulatorio territoriale nei pressi della struttura ospedaliera formato da un team multidisciplinare composta da un coordinatore infermieristico, da un farmacista, da un dietista, da un assistente sociale, da un fisioterapista e da un terapista occupazionale. Al giorno + 14 e al giorno + 100, il team incontrava, dopo la visita con il medico in ospedale, i pazienti per un tempo variabile tra i 60 e i 90 minuti; laddove quest’ultimi fossero impossibilitati a raggiungere l’ambulatorio, l’incontro avveniva in remoto. Tra le misure di esito rilevate nello studio di Nakagaki et al., confrontate con un gruppo di controllo storico di eguale periodo e di eguale numerosità campionaria, troviamo: problemi prioritari di salute e relativi interventi, riammissioni ospedaliere, grado di soddisfazione delle cure infermieristiche, qualità della vita (FACT BMT). Sorprende, e lo vogliamo sottolineare, l’assenza nel team dello psicologo al quale venivano indirizzati i pazienti solo in particolari condizioni non meglio definiti nello studio; la gestione del disagio emotivo era in carico all’assistente sociale.

 

Per una più semplice lettura dei risultati riportiamo quelli descritti nell’abstract: da luglio a dicembre 2019, sono stati visitati 57 pazienti (475 accessi con una media di 8,3 visite per paziente). Gli interventi più frequenti includevano attività riabilitativa (n = 111), supporto dietetico (n = 103), consulenza da parte dell'assistente sociale (n = 53), supporto all’assunzione dei farmaci (n = 51), gestione della fatigue (n = 43) ed educazione sanitaria da parte di infermieri (n = 22). Tale modello non ha ridotto il tasso di riammissione dei pazienti e non ha migliorato significativamente la qualità della vita. Tuttavia, c’è stato un feedback positivo da parte dei pazienti rispetto alle cure ricevute. 

Prima di rispondere alla domanda iniziale ci appare necessaria una premessa: lo studio non offre “forza statistica” e i risultati non sono supportati dall’utilizzo di strumenti standardizzati e validati, eccetto per la misura della qualità della vita. Fatta tale premessa, gli autori ci offrono comunque importanti spunti di discussione, non esauribili in tale contesto, ed alcuni suggerimenti pratici per implementare questo nuovo approccio. Spingendoci verso la definizione di un nostro modello riteniamo che la figura di coordinamento debba essere ricoperta dal care-manager piuttosto che dal coordinatore infermieristico integrando a pieno titolo la figura dello psicologo come professionista in grado di gestire efficacemente gli stati di distress psico-emotivi. Tornando alla domanda: in Italia, nell’attuale contesto normativo e regolamentatorio, questo tipo di organizzazione sanitaria può essere possibile e sostenibile? Probabilmente si, mutuando ad esempio il modello oggi utilizzato nel nostro SSN come quello dell’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) ridefinendo necessariamente ruoli e responsabilità.

  • A cura di
    Marco Cioce - Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS Roma - UOC SITRA - Responsabile Risk Management, qualità e sicurezza
  • Pubblicato
    30 Agosto 2023